Se siete donne e avete voglia di giocare senza divertirvi, vi consiglio di andare sul sito http://reports.weforum.org/global-gender-gap-report-2016/#read e calcolare il “vostro tempo stimato per raggiungere la parità di genere.” Per una donna come me, nata in Italia negli anni Settanta, nel periodo clou della lotta che voleva essere “rivoluzionaria” anche in campo femminista, la forbice discriminatoria di genere si chiuderà tra 216 anni, ben 20 anni dopo il resto del mondo.
Il “Global gender gap report”, pubblicato ogni anno a partire dal 2006 dal World Economic Forum, vuole mostrare la portata del divario di genere nel mondo, basandosi su criteri economici, politici, educazione e salute. L’ultimo rapporto stilato nel 2016 dimostra come l’Europa occidentale è la regione al mondo più vicina alla parità di genere, con un gap complessivo da colmare di “solo” il 25% – certo non grazie all’Italia che si trova in fondo alla classifica dell’Europa a 19 paesi, seguita solo da Austria, Cipro, Grecia e Malta ed è al 50° posto mondiale su 144 paesi, perdendo ben 9 posizioni rispetto allo scorso anno (Tab. 1). Questo a causa di una minore partecipazione politica – ad esempio la perdita del numero di donne in posizioni ministeriali nel governo Renzi – ed ad un ulteriore peggioramento nel dato “partecipazione e opportunità economiche”, in cui da sempre l’Italia si distingue come maglia nera. Siamo l’ottava economia del mondo ed il 51 percento della popolazione italiana è composto da donne, eppure arranchiamo sulla parità di genere, sorpassati da Paesi quali il Burundi, la Serbia, il Mozambico; siamo anche dietro la Moldavia, terra a noi cara per il mercato delle badanti. Se ci riferiamo solo all’aspetto economico, l’Italia si colloca al 117° posto.
Tab. 1 Global Gender Gap Index e sotto-indici in Italia (2006, 2015, 2016)
Fonte: Global Gender Gap Report, vari anni. Nota: 0 è il valore minimo (completa disparità) e 1 il valore massimo (totale parità).
Ma, per non perderci in statistiche troppo nutrite, facciamo riferimento solo alla vecchia Europa e ai dati Eurostat sempre del 2016. In Italia, il tasso di attività femminile è del 54,1% contro il 74,1% dei maschi, dato molto basso rispetto alla media europea che è del 66,8%. Mentre Il gender pay gap “grezzo” è inferiore al resto d’Europa: 6,1% rispetto al 16,7% (Eurostat, 2016b). Tuttavia, questo dato maschera più che smascherare il problema. Innanzi tutto, il gender pay gap in Italia è così basso proprio a causa della bassissima percentuale di donne che lavora. Se si tenesse conto anche delle donne che non lavorano, si stima che il differenziale salariale potrebbe essere quasi del 25%. In secondo luogo, questo differenziale è calcolato utilizzando il salario orario.
Tab 2: Divario di genere nel mercato del lavoro, Italia e Unione Europea, 2015
Fonte: Eurostat (2016). I dati fanno riferimento al 2015.
Quando si considera la retribuzione mensile o annuale, il gap raggiunge circa il 50-70%. Secondo l’ultimo Global gender gap report, il reddito da lavoro annuale delle donne è pari al 52% di quello degli uomini, e la stessa percentuale si ha quando si considera la retribuzione per lavori simili (51%).
Eurofound stima che in Italia il costo totale del divario tra uomini e donne nel mercato del lavoro sia di oltre 88 miliardi di euro, il costo più alto a livello europeo, circa 5,7% del Pil. Anche considerando solo le donne “disponibili a lavorare”, il costo è di oltre 51 miliardi di euro (3,3% del Pil).
Ma chiudiamo ancora di più il cerchio. Se prendiamo a riferimento l’ultimo rapporto Istat (dati 2014) anch’esso uscito nel 2016, ci accorgiamo che la “buona” performance italiana è una sintesi tra il valore molto basso del settore pubblico che controbilancia il settore privato. La media delle retribuzioni lorde orarie è pari a 14,1 euro; la retribuzione oraria più elevata si rileva nel settore delle Attività finanziarie ed assicurative (25,4 euro), quella più bassa si registra nel settore Altre attività dei servizi (9,8 euro).
Il paese di nascita determina un divario nelle retribuzioni orarie pari a -18,6% a svantaggio dei nati all’estero. Infine il 5,6% delle posizioni lavorative ha una retribuzione oraria inferiore o uguale a 7,5 euro ed è concentrata al Sud nel macro settore dei Servizi, tra donne (6,3% contro il 5,0% dei maschi) e giovani (fino a 29 anni, 11,3%), tra i livelli d’istruzione più basse e i part-timer. Ciò vuol dire che se sei una donna immigrata residente al Sud sei letteralmente spacciata, anche se nel tuo paese d’origine magari eri laureata in biotecnologia.
Lo stesso rapporto Istat rileva come “Il genere è una delle dimensioni rilevanti per l’analisi dei differenziali salariali”. Il differenziale retributivo delle donne rispetto agli uomini è pari a -12,2%, ovvero è di 13,0 euro di media contro i 14,8 euro guadagnati dagli uomini. Quasi tutti i settori registrano questo svantaggio, fatti salvi alcuni come le Costruzioni o le Aziende Minerarie dove le donne sono in numero molto minore e occupano prevalentemente posti impiegatizi, quindi più remunerati di quelli operai. Lo svantaggio femminile poi aumenta al crescere delle retribuzioni orarie sia a livello territoriale sia settoriale. Il settore delle Attività finanziarie, che presenta come abbiamo visto le retribuzioni orarie più alte, misura un differenziale retributivo di genere pari a -28%. Il gap retributivo aumenta con il grado d’istruzione ed è particolarmente accentuato tra laureati e laureate.
Fonte ISTAT report Anno 2014
Non bisogna dimenticare poi che il minor reddito a parità di lavoro produce effetti discriminatori a svantaggio delle donne, non solo nel breve periodo ma soprattutto nel lungo periodo, portando le lavoratrici a percepire trattamenti pensionistici più bassi degli uomini. Dato non trascurabile: se si considera che se nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, dal 2013 in poi la percentuale si attesta ad un livello che supera il 7, in altri termini è praticamente raddoppiato.
Ma quali sono i fattori che possono generare o alimentare le discriminazioni salariali di genere? Inoltre, come possono accadere tali discriminazioni anche in tutte quelle aziende che hanno dei contratti nazionali di riferimento?
Innanzitutto ci possono essere dei settori, come quello tessile, o dei servizi alla persona, che vedono la prevalenza di personale femminile e nei quali le retribuzioni sono tendenzialmente più basse. C’è poi la minor disponibilità delle donne a fare straordinari e la massiccia presenza di donne nei rapporti di lavoro a tempo parziale, in cui sia gli avanzamenti di carriera sia gli aumenti retributivi sono inferiori rispetto alle posizioni a tempo pieno. Infine ci sono quelle che potremmo riassumere come discriminazioni dirette sul luogo di lavoro, cioé: minore presenza di donne nelle posizioni di vertice, sottoinquadramento delle donne in relazione al lavoro svolto e alle loro competenze professionali, cosa che va a a braccetto con le differenti retribuzioni tra donne e uomini a parità di mansione e tipologia di lavoro e con l’uso di elementi retributivi variabili (salario variabile), che lasciano ampio spazio a differenziazioni tra lavoratori e di genere.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando prendiamo sempre a riferimento i dati Istat, in cui si può vedere che la retribuzione oraria delle posizioni a tempo parziale (11,8 euro) è in media inferiore del 21,3% rispetto a quella delle posizioni a tempo pieno. Le mensilità aggiuntive incidono per il 9,6% sulla retribuzione annua. I premi e altre componenti non erogabili in ogni periodo dell’anno per il 4%, mentre la retribuzione per straordinario ha un peso del 2,3%. Concentriamoci quindi sugli ultimi due fattori.
L’incidenza del lavoro part-time varia notevolmente tra uomini e donne. Nel 2014, nell’UE a 28 paesi, poco meno di un terzo (32,2 %) delle donne occupate di età compresa tra i 15 e i 64 anni lavorava a tempo parziale, una quota molto superiore a quella registrata per gli uomini (8,8 %), fino a raggiungere più di tre quarti (76,7 %) nei Paesi Bassi.
In Italia dal 2000 al 2013 il numero di occupati part-time – stimato sulla base della dichiarazione degli occupati intervistati attraverso la LFS11 – è cresciuto da poco meno di tre a oltre quattro milioni di unità con un tasso di crescita complessivo vicino al 40%. Il part-time femminile, che già nel 2000 era largamente maggioritario (circa il 70% degli occupati part-time), ha avuto una crescita pressoché costante nel periodo considerato (+45%). Il part-time maschile invece ha segnato una netta contrazione fino al 2005 per poi conoscere una lenta risalita e infine una accelerazione dal 2010 che lo ha portato a superare il 25% nel 2013. La ripresa dell’occupazione part-time ha quindi coinciso con l’acuirsi della crisi economica e ha reso ancora più evidente l’asimmetria fra componente femminile, guidata da esigenze di conciliazione, e maschile, in cui prevale il part-time involontario.
In ambito comunitario l’Italia è senz’altro uno dei paesi in cui l’espansione del part-time femminile è stata più netta: nel 2001 la sua incidenza era pari alla metà rispetto alla media della zona euro, mentre a fine 2013 il divario si riduce a cinque punti percentuali. Ciò ha tuttavia avuto un effetto relativamente modesto sulla chiusura del gap sui tassi di occupazione, che è rimasto sostanzialmente invariato (oltre 10 p.p.; 50% per l’Italia nel 2013).
Il genere emerge come elemento che caratterizza fortemente i falsi part-time: di fatto, se nei due anni considerati gli uomini rappresentano poco oltre il 20% del totale dei part-time EMENS (EMENS è la denuncia mensile che il datore di lavoro invia all’INPS per comunicare le retribuzioni dei dipendenti), essi costituiscono quasi il 40% dei falsi part-time, fra i quali hanno un’incidenza più che doppia rispetto alla componente femminile. Ciò appare riconducibile soprattutto a questioni settoriali: i maggiori differenziali a favore dei falsi part-time maschili si hanno negli alberghi e nei pubblici esercizi, nelle costruzioni e nei servizi alle imprese, mentre l’incidenza del falso part-time femminile sembra avvicinarsi al dato maschile nell’istruzione e negli altri servizi alle famiglie. Rimane il fatto che per le donne l’incidenza dei falsi part-time è maggiore nelle classi di età giovanili mentre per gli uomini nelle età centrali: per ambedue i generi sembra operare in maniera vistosa la dimensione territoriale (a sfavore del Mezzogiorno). In effetti, oltre metà di queste incoerenze si riscontrano fra occupati part-time con quote contrattuali pari almeno al 70% del corrispondente orario full-time, i quali rappresentano un terzo circa del totale dei contratti part-time. Questo risultato sarebbe da mettere in relazione poi con gli incentivi che rendono più vantaggiose per le imprese le assunzioni con contratti a tempo parziale con percentuali elevate. A questo bisogna aggiungere le ore supplementari dei part-timer pagate a nero. Prendendo per buoni i dati ISTAT del rapporto “Nero a metà” (n.3, 2104), nel 2010 gli uomini a part-time si sono visti retribuire regolarmente il 68% delle ore effettivamente lavorate, un 23% è stato ricompensato “fuori busta” ed il 9% non è stato nemmeno pagato; alle donne, invece, nello stesso anno, le ore retribuite in busta paga sono state il 72%, il 24% fuori busta e il 10% sono andate “distrattamente” perse.
Il forte uso da parte delle donne del part-time (32,4% rispetto all’8% degli uomini) e la poca propensione a fare straordinari vengono sempre associati al bisogno delle donne di conciliare i tempi di lavoro con quelli di cura. Come molte di noi sanno, la scelta di lavorare meno non è completamente libera ma, spesso, determinata dal fatto che la gestione dei figli ed il lavoro domestico ricadono quasi esclusivamente sulle donne che spendono oltre 300 minuti al giorno per lavoro non pagato, mentre gli uomini circa 100 minuti (Oecd, 2016).
Tab. 3 Minuti di lavoro pagato e non pagato in Italia e nei paesi Oecd
Fonte: Oecd (2016). I dati riferimento al 2008-2009.
Vorrei far notare ad un pubblico disattento che, se prendiamo per buono l’ultimo dato derivante dal Censimento 2011, le donne in Italia sono 30.688.237: i minuti gratuiti che queste donano all’anno sono perciò la pochezza di 3.441.378.897,180, cioé più di 57 milioni di ore l’anno, mentre i meno generosi uomini si attestano a poco più di 18 milioni di ore l’anno. Se ci fosse una voce del PIL al riguardo, come c’è per droga contrabbando e prostituzione, potremmo azzardare il dato del 3.5% del PIL.
Possiamo mettere da parte il fatto che la disciplina del lavoro a tempo parziale trae origini in Italia dagli anni ’70 – quando fu introdotto come strumento per gestire situazioni di crisi – ma certo non possiamo trascurare il fatto che il part-time è visto, da tutti i commenti alle statistiche che ho visionato, come uno strumento largamente utilizzato per la conciliazione dei tempi della donna. Trovo, e per fortuna non sono sola anzi, che il termine “conciliazione” porti con sé una legittimità quasi biologica al fatto che deve essere proprio la donna ad occuparsi del lavoro di cura perché, appunto, più “nel suo ambiente naturale.” Sembra quasi che il mondo economico abbia preso per buono Sigmund Freud quando sosteneva che la donna fosse, per sua natura, più brava a fare pulizie: questo secondo il padre della psicanalisi era dovuto all’intrinseco lerciume della vagina. Le donne quindi spazzano, lavano e spolverano più e meglio degli uomini per compensare la sporcizia del proprio corpo: sono spiacente per Freud e i sui simpatizzanti ma non c’è nulla che renda la donna biologicamente più adatta alle faccende domestiche retribuite o meno.
Secondo l’economista Gary Becker poi è razionale che lo stipendio di una donna sia più basso, perché passare gran parte del tempo libero a mandare avanti la casa è stancante e quindi la donna ha meno energie da dedicare al lavoro salariato. Come dice Katrine Marçal: “Se si vuole legittimare il rapporto globale fra il potere economico ed il possesso di un pene, sarà il caso di cercare altrove.” Anche perché questo tipo di ragionamenti partono dal presupposto che l’esperienza acquisita nel “mandare avanti la casa e la famiglia” non sia utilizzabile sul mercato. La persona, leggi donna, che si accolla la gestione della casa non accumula esperienze professionali, perciò è naturale che abbia uno stipendio più basso: lavorando gratis in casa, s’imparano cose che valgono soltanto in casa.
In realtà questa regola, se mai ha avuto un valore, oggi è completamente ribaltata grazie alla “valorizzazione delle capacità femminili” implicite in alcune mansioni richieste proprio dal mercato del lavoro – vedi ad esempio la capacità di organizzarsi e organizzare, quella di prendere contemporaneamente più decisioni, semplici o complesse che siano, e soprattutto di relazionarsi con gli altri. Queste capacità non sono richieste ufficialmente e quindi non sono riconosciute economicamente: fanno parte di quel “surplus di sfruttamento” imposto attraverso il genere che molte donne hanno imparato a conoscere, ma che ancora non riescono a riconoscere come profondo atto di “disuguaglianza di genere” in ambito lavorativo. Non si capisce come mai l’affermazione da parte del superiore in grado “fai tu che in queste cose sei più brava/o”, nella maggior parte dei casi per gli uomini comporti o un avanzamento di livello o un miglioramento economico, come un premio ad personam, per la donna, invece, quasi sempre non porta a nulla.
È un fatto che ormai la gran parte dei e delle nuove occupate ma anche di chi ha lavorato per lungo tempo in luoghi di lavoro sotto i 15 dipendenti sappia poco o niente di cosa voglia dire realmente un contratto di lavoro e, ancor meno, che ad un determinato livello corrisponde una determinata mansione. Eppure, scartabellando in modo trasversale tra i vari contratti, le parole chiave che suddividono così magistralmente i vari livelli contrattuali si concentrano su pochi fattori: maggiore o minore pratica nella tipologia di lavoro, maggiore o minore autonomia per effettuare una prestazione, capacità o meno di prendere delle decisioni. Se ognuna di noi considerasse tutto quello che effettivamente svolge nel suo ambiente lavorativo e andasse poi a trovare un riscontro nella mansione legata al suo effettivo livello ne rimarrebbe tristemente sorpresa.
È vero che la diseguaglianza economica derivata dalla politica economica del pene si riflette anche su tutti gli altri aspetti della vita quotidiana, influenza il “potere contrattuale” delle donne, all’interno della famiglia e all’interno della società. La regola aurea del sistema patriarcale dura ancor oggi: la mamma ha meno diritti e meno cose, perché è papà a pagare i conti. Ma a questa non si può certo rispondere con le vacue politiche di “conciliazione” o di “pari opportunità” che tutti i governanti ci hanno e continuano a propinarci.
La vera risposta sta in noi. Rigettare ad esempio termini come “maternità” usando “genitorialità”, o rifiutare il concetto di “conciliazione” e cominciare a parlare d “condivisione” porta a cercare un modo altro di intendere il lavoro produttivo e riproduttivo. Condividere il lavoro di cura con il compagno all’interno delle mura domestiche può portare alla ricerca di una condivisione della cura di sé e degli altri anche fuori da quelle mura. Questa condivisione poi depotenzierebbe in modo positivo la sempre più pressante richiesta di welfare, che, come, sappiamo è basato sullo sfruttamento e il misero salario, soprattutto per le donne: questo dato non è basato solo sulle borse lavoro o i sottopagati lavori socialmente utili, che fanno del padrone Stato il più grande sfruttatore che fa invidia a qualsiasi imprenditore, imbrigliato com’è dai lacci e lacciuoli dei vari contratti nazionali. Rigettare questo tipo di politiche vuol dire anche non ricorrere alle colf o alle badanti sottopagate per liberare del tempo utile a trovare un lavoro o alla nostra “carriera.”
Comprendere bene di essere sfruttate in mille forme, anche sotto la “tutela” di un contratto nazionale, deve portare alla voglia di reagire e di rivendicare quello che anche oggi è già nostro di diritto, ma non lo sappiamo perché in realtà non ci siamo mai poste il problema troppo prese dal ricatto del “posto di lavoro a tutti i costi.”
Propongo per questo 8 marzo, per chi non può scioperare, perché precarie e ricattabili, di fare solo uno sforzo… rallentare i ritmi lavorativi imposti come se fossero naturali e soprattutto fare solo quello che il proprio livello salariale prevede. Già così sono convinta che si bloccherebbe mezza Italia.
Condivisione e rivendicazione attraverso la lotta questa è la vera ricetta per chiudere definitivamente il divario di genere… non fatemi aspettare 216 anni!
Francesca Goldman